Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra
di Piero Dorfles
Capita un po’ a tutti noi, letture e studi a parte, di informarci sui tempi che hanno preceduto la nostra venuta al mondo attingendo dai racconti dei genitori e dei nonni. Non tanto di storia, quanto soprattutto di storie si vive; e quelle familiari sono dotate in genere di quel fascino misto a curiosità che ha interessato soprattutto la categoria sociologica dei “baby boomer”, vale a dire i nati tra il 1946 e il 1964, nel pieno dell’esplosione demografica seguita alla seconda guerra mondiale.
Ne avevamo di cose da chiedere sulla guerra, noi b.b. in particolare. E ognuno di noi ha potuto ascoltare frammenti di storie familiari a seconda del vissuto, della disponibilità a narrare del testimone di turno, e dell’attenzione concessa da noi figli stessi, in genere alta quando ci si è trovati di fronte a vicende sorprendenti.
Se non abbiamo avuto l’opportunità di farlo da giovani, complice una certa diffusa riluttanza a parlare di guerra da parte di chi l’ha vissuta, è probabile che l’interesse sia cresciuto con l’avanzare dell’età, sfociato nelle molte domande rivolte a chi poteva ancora raccontare. Per sapere chi siamo, noi “boomer” più di altre generazioni abbiamo sentito la necessità di conoscere qualcosa di più del nostro albero genealogico. Abbiamo avuto bisogno di alimentarci di storie vere a noi vicine, oltre che di favole, e per questo la mitologia familiare ci ha attratti verso quel più o meno consapevole percorso auto-formativo individuale che è la narrazione.
A questo particolare tipo di esperienza non si è sottratto neppure Piero Dorfles, che con Chiassovezzano (Bompiani, 2024) ci ha consegnato la storia di “una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra”, come recita il sottotitolo del libro. Rispetto alla media, lui, giornalista e critico letterario classe ‘46, noto volto televisivo, ha avuto la possibilità di contare non solo sull’oralità – assicurata dalla testimonianza della madre – ma di disporre anche del prezioso carteggio epistolare intercorso tra i diversi componenti della famiglia (tra cui lo zio Gillo Dorfles, pittore, critico d’arte e filosofo).
Da queste fonti prende corpo il nuovo libro di Piero Dorfles, una biografia familiare intrecciata a un rispecchiamento autobiografico proposto con tono garbato e misurato dal narratore. Che talvolta si scusa perfino con il lettore, come potrebbe accadere raccontando a voce, in presenza: “(…) Se può sembrare un’analisi non richiesta dal tono di questo racconto me ne scuso, ma mi prendo per un momento la libertà di riflettere su qualcosa che, anche se può sembrare marginale, pare importante a me, e forse utile a spiegare il senso ultimo del modo in cui la mia famiglia si è comportata in quegli anni”.
I Dörfles vivono a Trieste, e sono “una delle tante famiglie ebraiche assimilate, intensamente partecipe della vita culturale e civile della città”. Costretti a subire le limitazioni delle leggi razziali, dopo l’8 settembre riparano a Chiassovezzano, frazione del comune toscano di Lajatico, in una proprietà scelta dallo zio Gillo e acquistata lontano da Trieste per sfuggire alle regole che privavano gli ebrei, fra l’altro, del diritto di proprietà.
Giorgio, il padre di Piero, avvocato, sposa Alma, ariana. Alle origini ebraiche della famiglia non ci avrebbe neppure pensato, lui che dell’ebraismo apprezzava forse solo una certa visione del mondo, se non fosse stato per Mussolini e le sue tragiche leggi del ’38, annunciate proprio a Trieste. Città, questa, occupata dai nazisti, da cui marito e moglie decidono di scappare per raggiungere la Toscana, momento topico in cui si rende sempre più irrinunciabile un ossessionante progetto: riuscire a dimostrare che la famiglia Dörfles è di origini ariane.
La temerarietà di cui parla Piero nel libro è quella forma di incoscienza che porterà il padre ad affrontare situazioni delicatissime, se non del tutto pericolose, pur di riuscire nel suo intento. E lo farà provando a calcare ogni strada possibile per raggiungere la meta, in parte avvalendosi della non meno temeraria ed efficace partecipazione di Alma.
Sullo sfondo, il racconto si snoda tra il 1943 e il 1945, con richiami ad anni precedenti e successivi, attraversando i luoghi su cui si è mossa la famiglia (Trieste, Chiassovezzano, Rodi, Genova, Milano, Roma). Verso Lajatico Piero Dorfles dichiara “un debito di riconoscenza che non possiamo dimenticare”, per aver salvato la vita ai suoi genitori. “Lajatico e Chiassovezzano – scrive – sono un puntino insignificante sulla carta geografica e forse sono importanti solo per chi ci ha vissuto. Come ogni luogo dove vive una comunità, però, sia pure in scala minuscola, rappresentano un tratto originale nella storia dell’umanità”.
I luoghi sono senza dubbio co-protagonisti delle vicende familiari dei Dörfles, insieme alle persone da essi ospitate. Il recupero della memoria operato dall’autore attraverso le lettere, il racconto della madre e i taccuini di Gillo, consente di far entrare in scena il vasto campionario di umanità che ruota attorno alla famiglia, ricostruendo per quanto possibile storie improntate a veridicità incorniciate nella realtà oggettiva dei fatti storici (tra cui rientra anche la storia di un cognome che a guerra conclusa subirà una quasi impercettibile trasformazione).
Scritto con mano leggera e ironica, Chiassovezzano non è un libro di storia, come avverte lo stesso autore, ma il risultato di una ricerca fatta con passione e riconoscenza. Un libro che non può non essere apprezzato dai cultori dell’autobiografia e delle storie di vita, capace di nutrire il nostro bisogno di conoscenza e di offrire spunti di riflessione sull’attualità. “Ogni libro – ha dichiarato Dorfles in un’intervista– è strumento di analisi interiore per comprendere i cambiamenti che la storia ha operato su di noi, per fare i conti con la nostra fatuità, fragilità e contraddittorietà”.
Come, appunto, sa fare il suo ultimo libro.