Vite di un mondo perduto
di Corrado Stajano
“Quando nel 1984 mi parlò dei diari da raccogliere in un archivio rimasi sulle prime perplesso e anche stupito. Come si accordava l’immagine del rivoluzionario che avevo di lui con quella di un archivista della memoria? Come far combaciare quel suo infilarsi naturale nel groviglio delle lotte, testimone partecipe di tutti i movimenti di liberazione del mondo, quasi un destino toccatogli in sorte, con la paziente ricerca delle esistenze che gli uomini, nei loro diari segreti, raccontano?”. Con queste parole dedicate a Saverio Tutino, Corrado Stajano ne ricorda i meriti legati alla sua maggiore impresa, la creazione dell’Archivio nazionale di Pieve Santo Stefano, ma finisce per parlare di se stesso: “cercava ora di dare coscienza a un paese come l’Italia che per viltà rifiuta di frequente la memoria, perché può essere dolorosa”.
Nel suo saggio – quasi un memoriale -, Destini. Vite di un mondo perduto, riedito dal Saggiatore con ampliamenti e qualche revisione di un testo del 2014, Stajano vuole essere coerente con il proprio destino di scrittore, come afferma in una intervista: “Qualcuno mi ha definito “scrittore civile”, onestamente mi pare una definizione pigra. Se civile significa avere ben presente la differenza tra bene e male allora, partendo dal grande Dostoevskij, sono tanti gli scrittori che possono fregiarsi di questo aggettivo”. Uno scrittore ricercatore delle vite degli altri che si intrecciano con la sua, soprattutto se travagliate, sempre guidato da una scelta etica. Coerenza, onestà, dignità, fedeltà a se stessi anche nel dolore: queste le coordinate che accomunano i “destini” da lui considerati degni di racconto. Negli anni tragici in cui ci tocca vivere tocchiamo con mano che “ci sono perfino aspetti comici nella capacità italiana di far convivere il carnevale con la tragedia”. Pensando all’oggi, un’affermazione quanto mai vera, come dice Nuto Revelli a proposito dell’8 settembre 1943: “ho visto crollare un mondo, insomma. In fondo al pozzo eravamo finiti. E chi ne ha tenuto conto in questi trent’anni?”. Adesso ne sono passati ottanta, ma la domanda è sempre la stessa.
Sfuggente il significato di “destino” che emerge dal testo. Sappiamo che è una parola suggestiva, polisemica, che rimanda ad un misto di fatalità, incombenza di una forza superiore, scelta perseguita per una vita, casualità, stile di vita coerente, ricostruzione retrospettiva del senso della esistenza. Oltremodo intraducibile, se pensiamo alle vite indagate e narrate: P. Volponi, G. Fiori, T. Terzani, C. Magris, E. Bruck, A. Rechelmy, A. Cavallari, D. Montaldi, E. Olmi, S. Tutino, Padre Turoldo, C. Cases, L. Pinelli, G. Manzini, G. Einaudi, R. Cerati, C. Garboli, R. Bilenchi, F. Cavallone, R. Mattioli, M. Dondero, N. Revelli, E. Rea, A. M. Ortese, I. Pietra, V. Consolo. “I personaggi di Destini, uomini e donne della cultura italiana del Novecento, anomali, spesso, controcorrente, sono riusciti a fare nella vita quel che fin da ragazzi hanno desiderato, mai pentiti delle loro scelte”.
Nel testo sono presentati ventisette destini, incorniciati da una “Premessa” e da un capitolo finale “Una tovaglia di lino bianco”, ereditata dalla moglie, una nota fotografa, Giovanna Borgese, nipote di G. A. Borgese, su cui sono depositate firme “in amicizia” di centinaia di protagonisti della storia d’Italia del ‘900: “Alcuni hanno avuto un’esistenza morbida, non si sono neppure resi conto della furia del mondo, altri, invece, hanno avuto troncata la vita da acerbe sofferenze, esiliati, dalla patria, fucilati, morti nei Lager nazisti, suicidi, impiccati”. Personalità note e meno note, quelle presentate da Stajano, vivissime nella loro diversità, ma spesso accomunate dalla convinzione che la letteratura, come la poesia, il cinema o la fotografia, sia “uno degli strumenti, il più grande forse, di comprensione del mondo” (Paolo Volponi). La convinzione più profonda di Corrado Stajano rimane sempre quella che lo scrivere per la conoscenza della vita e del mondo rimane “la più nobile medaglia alla quale possa ambire uno scrittore” (Claudio Magris).
Proprio al centro del testo Stajano colloca un capitolo che non presenta un personaggio, ma “La mala segnoria”, quasi a rappresentare lo snodo fatale di questi destini: “Pare quasi che sui muri di Palermo trasudi il sangue mescolato della Storia”, richiamati da targhe che attraversano i secoli. E tra di esse “un lenzuolo bianco appeso ad un balcone con una scritta che ricorda Falcone e Borsellino, l’ultimo sangue”. Un panno bianco, che fa da pendant alla tovaglia di 150 cm di lato in casa Stajano, dove si sono incrociati 718 destini diversi: “Forse quella tela di cui ho scritto è più illuminante delle altre storie di vita raccolte nel libro e fa capire come sono misteriosi i destini degli uomini, coi loro desideri, speranze, sconfitte”. Questa tovaglia di lino bianco è forse una fedele rappresentazione del “secolo breve”, come lo è il lenzuolo a due piazze sul quale una contadina mantovana scrisse la sua vita, il diario più prezioso tra quelli raccolti da Saverio Tutino a Pieve Santo Stefano.