di Alessandro Venuto
C’è un’arte in Giappone, il kintsugi, che si dedica a ricomporre gli oggetti in ceramica danneggiati, utilizzando l’oro. Rapportato all’esistenza umana, il senso di questo procedimento è sottile metafora della preziosità della cura. Di quella possibilità di trasformare l’imperfezione in perfezione che si rivela quando si sceglie di rimettere in sesto i frammenti della propria anima affidandosi al valore di un percorso resiliente.
Cura e riscatto sono l’oro che il protagonista di In direzione opposta trova sulla sua tortuosa strada, dal momento in cui orienta le proprie azioni verso la conquista della dignità. La storia che Alessandro Venuto ci propone nel suo romanzo d’esordio ci presenta subito Stefano Re, ormai diventato esperto educatore in una comunità di tossicodipendenti, nel suo presente di marito e di padre. Intessendo il racconto nella scansione temporale di una giornata di lavoro, affiorano i flash-back che portano alla luce il difficile passato di Stefano: gli incontri clandestini di pugilato gestiti dalla malavita, l’amore per la donna di un boss, la schiavitù della droga e il positivo percorso di recupero nel mondo reale di una comunità terapeutica, dove insieme a persone straordinarie, perché vere, una seducente biblioteca lo attrarrà irrimediabilmente verso la conoscenza. A tutto questo pensa Stefano, tra un impegno e l’altro e una telefonata a Sharon e alle bambine, quando improvvisamente accade qualcosa: il passato, a volte, ritorna, e la storia prende una svolta inattesa.
In direzione opposta nasce dall’incontro tra la fantasia e le esperienze professionali di un autore che, come il protagonista del libro, svolge l’attività di educatore in una comunità. “Aspetti della mia vita vengono in qualche modo distribuiti sui tre personaggi principali – spiega Venuto – molti altri invece li ho recuperati dalle infinite ore accumulate nelle quali i pazienti, con grande cura, mi hanno spiegato cosa sia una dipendenza e come la si vive”.
Il risultato del suo lavoro è una storia avvincente e per certi aspetti anche istruttiva. Venuto ci accompagna in due veri e propri gironi infernali, quello dei combattimenti illegali e quello della dipendenza da sostanze, per poi farci conoscere da vicino, con il filtro della sua reale esperienza, di che cosa si parla quando si parla del lavoro di cura che si svolge all’interno di una comunità di recupero. E lo fa, inoltre, dimostrando di possedere la capacità di gestire con equilibrio il non semplice rapporto che unisce tra loro autobiografismo e biografia immaginaria. Ma non solo. Come ci ricorda Luis Sepulveda, “Lo scrittore deve annullare la propria identità per diventare tanti Io quanti sono i suoi personaggi”. Venuto, senza dubbio, riesce qui a rendersi invisibile e a moltiplicarsi, spalmando personale passione ed esperienza nella tutt’altro che scontata raffigurazione dei personaggi portati in scena.