Scrivere il filo verde della propria vita.
di Duccio Demetrio
Il titolo nuovo del saggio suona bene, potrebbe essere un bell’endecasillabo. La pubblicazione in forma rinnovata, e impreziosita dalle riproduzioni di immagini a colori di alcuni dipinti dell’autore, ora porta in primo piano il sottotitolo del testo di nove anni fa, ponendo meglio sotto gli occhi del lettore il centro del discorso di Duccio Demetrio, la compenetrazione tra l’apparentemente “esterno”, la natura con le sue molteplici fenomenologie, e l’apparentemente “interno”, ciò che sta dentro di noi, le sensazioni, le emozioni, le ricordanze, le voci di un rapporto mai dimenticato con ciò che ci appare naturale, da trasformare in scrittura di sé. Richiamando una citazione di Maurice Merleau-Ponty, che vale anche per lo scrittore: “La visione del pittore non è più uno sguardo su un di fuori dal mondo. Il mondo non è più davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che rinasce nelle cose come per concentrazione sul visibile” (p.21).
L’intendimento dell’autore sembra essere quello di fornire un contributo alla grande corrente dell’ecologia narrativa che ha origine antichissime e un passaggio fondamentale in età recenti in J. Loverlock, con il suo famoso “Gaia. Nuove idee sull’ecologia” (1988) e nelle ricerche pluriennali di E. Morin, che ormai ultra centenario, trova ancora la forza di scrivere: “provo una fervente comunione e fusione, quasi mistica, tra il mondo in me e me nel mondo. Sento anche la semplice gioia di essere in vita” (2024). Tuttavia si evidenzia anche la finalità di superare in forma narratologica alcuni limiti dell’ecologia scientifica, politica e civile: “Non possiamo cessare di raccontare la Terra avvalendoci di antiche modalità affidate alle parole e alle arti” (pp.11-12). E’ dunque necessario toccare, smuovere ed evidenziare, secondo Demetrio, quanto tutte le donne e tutti gli uomini hanno vissuto e vivono nei confronti della Terra, ma che troppo spesso rimane latente, non esplicitato attraverso l’uso della parola: “Siamo stati e saremo sempre e soltanto noi a offrire alla Terra la possibilità di raccontarsi con alfabeti le cui frasi saremo noi a comporre oralmente e poi a compitare” (p.9).
Da questa esigenza si sviluppa un’altra profonda vocazione del testo, che è quella educativa, pedagogica in senso lato. Demetrio intende guidare le lettrici e i lettori a percorrere il cammino che porta alla scrittura di sé in rapporto alle molteplici manifestazioni della natura, consentendo alla natura stessa di narrarsi: nel variare delle stagioni (in primavera, nei giorni della calura, nel lento ritirarsi dell’autunno, nei mesi del gelo); degli ambienti (il mare, la montagna, il lago, il fiume, i boschi ecc.), degli sfondi, delle occasioni con cui si viene a contatto e che risuona diversamente in ogni soggetto; degli stati d’animo che accompagnano la giornata o l’esistenza in una vita. Per iniziarli a questo egli sa variare in continuazione il tipo di testi, gli esempi, i modelli proposti, l’originalità degli autori, di epoche anche assai lontane, che possono rappresentare uno stimolo fruttuoso per avviare un’autobiografia ecologica come atto di cura per sé e per la Madre Terra. Offre perfino un decalogo per chi si accinga all’impresa di rinnovare l’alleanza tra scrittura e natura (pp.127-128).
La rinnovata proposta editoriale presenta le nuove pagine dell’“Introduzione”, e qualche robusto taglio rispetto al testo originale: variazioni sulla cui importanza occorre riflettere. A cominciare dalle pagine autobiografiche, intime, dell’autore che si trova a passeggiare, sostare, annotare nelle rasserenanti valli dell’Appennino umbro-toscano, che gli forniscono immagini, impressioni, varietà di colori, di forme, di sfondi, che poi trasferisce sulla tela, da cui sono rigorosamente esclusi i tratti guizzanti e nervosi, i colori delle passioni, degli impulsi, della sensualità, ma anche albe e tramonti, con i loro colori sgargianti e le molteplici simbologie che suscitano in tutti gli umani. Colline e vallate che lo invitano a sostare, ad accogliere, a trovare i silenzi, i sussurri, le voci più nascoste in sé e fuori di sé. Risvegliando il suo temperamento contemplativo.
L’inserimento delle immagini create dall’autore, a cui dedica pagine autobiografiche per rivelarne la genesi, intende sottolineare le radici autobiografiche di questo percorso green, di questo cosciente inserirsi in una filosofia e narrativa ecologica, scrivendo un testo che è forse quello maggiormente legato alla sua storia personale di bambino, di ragazzo, di adulto, di ormai anziano. Tanto è vero che quasi al termine delle sue pagine Demetrio ammette che il presente testo si cimenta, in maniera forse nuova, “con una pratica autobiografica meno frammentaria delle precedenti. Tanti anni di scrittura di me, disseminata nei miei libri, custodita nei miei diari e in tanti fogli sparsi e dimenticati, altrettanti a invogliare a fare lo stesso, mi hanno consentito di mostrare ad altri e a me stesso quanto questo genere di scrittura – esercitata non come passatempo, ma come scelta di vita – costituisca la seconda grande iniziazione formativa della nostra esistenza. La prima è appunto viverla, la seconda è scriverla” (p.216).
Queste pagine dedicate alla sua storia personale, inseriti in un testo ben altrimenti complesso, evidenziano un’attitudine più commossa rispetto a precedenti pubblicazioni – quando l’autore si esprimeva in forme più distaccate, rarefatte, quasi aliene da ogni facile emozione e riferimento a sé. Ora si dilunga con piacere sulle sue lunghe camminate tra le colline o sulla genesi antica del suo entusiasmo per la natura e i suoi molteplici fenomeni, sulle origini infantili, fanciullesche del suo appassionarsi alle manifestazioni della Terra, come fonte di crescenti meraviglie e di inesauribile spinta alla vita. Sulle letture che l’hanno accompagnato dalla scuola elementare fino ad ora, sulle sue molteplici esperienze di lui, ragazzo di città, che invidiava i compagni campagnoli per la loro famigliarità con molti momenti della vita della Terra, sugli incontri con i molteplici paesaggi di campagna, di collina, di lago, di mare, anche con lo spettacolo luminescente delle lucciole, che hanno alimentato la sua primitiva “green autobiography”. In queste pagine di delicata rievocazione memoriale il lettore scopre che il libro che sta leggendo forse non sarebbe mai nato senza queste esperienze, se non ci fosse stato, tra le sensazioni più antiche, il primo albero di cui l’autore pronunciò il difficile scioglilingua del nome, un grande albero di magnolia carico di suggestioni insieme materne e paterne: “Mi ha insegnato ad annusare quei fiori bianchi e carnosi, troppo inebrianti nei mesi già afosi di luglio, a salire tra i suoi rami bassi, nel sogno che si innalzasse, a costruire altre piroghe, non più da bambino, da abbandonare alla corrente quando ne ho l’occasione. Credo mi abbia affidato il compito di non dimenticarla, perché la magnolia è pianta sempreverde, il vessillo di un’illusione di stabilità, nonostante il trascorrere delle stagioni della vita che vedo ora, una per una, più chiaramente di prima” (p.235).