TEMPO E IMMAGINE DI SÉ
Stefano Ferrari
Nel rapporto con la propria immagine (di cui l’autoritratto, in tutte le sue forme e gradazioni, da quelle più elementari a quelle più strutturate, costituisce l’equivalente formale) la dimensione del tempo è costitutiva.
Secondo una consolidata tradizione critica, l’autoritratto (come doppio), nella sua vocazione originaria, rappresenterebbe una sorta di scongiuro nei confronti del tempo che passa e quindi della morte che incombe. Ma quel tempo che si vorrebbe fermare finisce invece per essere continuamente evocato dalla artificiale fissità delle sue immagini – una dimensione che caratterizza, come è noto, soprattutto la fotografia. E sono molti gli artisti che hanno lavorato mettendo in scena questo teatro: Roman Opalka, Urs Lüthi, Carlo Alfano… Ma lo stesso paradosso lo sperimentiamo quasi quotidianamente navigando in rete, tra selfie vari e postazioni di sempre nuove vecchie immagini.
Ma è anche un’altra la prospettiva con cui potremo trattare il problema del tempo. Alla base della difficile relazione che ciascuno di noi intrattiene con la propria immagine sta la distanza e la discrepanza tra la soggettività della nostra “immagine interna” (che, come vedremo, si forma relativamente tardi, ma che poi inaspettatamente si conserva a lungo, senza essere troppo influenzata dal trascorrere del tempo) e la sua rappresentazione oggettiva (nello specchio, nella fotografia, nello sguardo degli altri…), che invece quel tempo ci rivela in tutta la sua devastante realtà. Sempre molto efficaci e suggestive in questo contesto risultano le parole di Jean Cocteau: “Vi svelo il mistero dei misteri. Gli specchi sono le porte attraverso le quali la Morte va e viene. […] D’altronde, guardatevi per tutta la vita in uno specchio e vedrete la Morte lavorare come le api in un alveare di vetro.”