Memorie di un criminologo
di Adolfo Ceretti con Niccolò Nisivoccia
Ha senso parlare di autobiografia quando abbiamo un coautore e quando questa è stata scritta a quattro mani? Succede talvolta che sia necessaria una mediazione quando la materia di cui si tratta è incandescente; quando i ricordi si fanno troppo dolorosi avere un’alterità che aiuti l’autore – narratore può rivelarsi necessario. In questa autobiografia Adolfo Ceretti si è appoggiato alla penna di Niccolò Nisivoccia, avvocato e scrittore per potersi raccontare, per entrare nei gangli personali e professionali della propria esistenza.
Ceretti è uno dei massimi criminologi italiani, conosciuto per gli studi sulle “Cosmologie violente”, nonché ideatore assieme a Claudia Mazzuccato e Guida Bertagna della più importante esperienza di giustizia riparativa italiana: il Gruppo dell’incontro. In questa autobiografia ripercorre la sua carriera, dai maestri importanti come Giandomenico Pisapia e Guido Galli, agli incontri e perizie sui criminali violenti talvolta famosi come Renato Vallanzasca.
Nel prologo di questa autobiografia veniamo introdotti subito dentro un conflitto, materia di cui Ceretti da sempre si occupa, conflitto avvenuto nel carcere di Padova con cui l’autore assieme a dei colleghi si trova a dover mediare. Il lavoro di mediazione tra vittima e autore di reato, tra chi ha agito violenza e chi l’ha subita e il tentativo – possibilità di ricomporre il conflitto è il filo rosso di questa autobiografia e della vita del suo autore. Un cercare sempre l’uomo dietro l’azione violenta.
“Sono nato a Milano il 2 novembre, giorno dei morti (…) Sono stato proprio ripescato dalla morte (…) La mia lotta per continuare a vivere, iniziata ancora prima del mio primo respiro, è un’esperienza corporea che accompagna ogni istante della mia esistenza e professione”; veniamo introdotti fin dall’incipit dentro una vita vissuto come dono, da questo dono l’autore ne deriva uno sviluppo di una sensibilità “fuori dal comune”.
All’interno di questo testo possiamo individuare due tematiche principali, la prima e forse più interessante la si trova in apertura e chiusura del libro, dove l’autore delinea il rapporto complesso con i genitori ed in particolare con il padre e il misurarsi con la sua depressione: “Mio padre Vittorio era un artigiano orafo, aveva un negozio in Corso Vittorio Emanuele a Milano. Era un artista (…) ma prima che io entrassi nella preadolescenza la sua vita venne distrutta dalla depressione (…) Dal 1968 in avanti, fino al 1991, l’anno in cui morì, io non ricordo che mi abbia mai più rivolto la parola, se non in rarissime occasioni”. Oltre al rapporto con il padre, alla fine del testo Ceretti, con alcuni delicati tratti ci introduce al rapporto con la sorella e nipote, affetta da una patologia fin dalla nascita. È in questi passaggi che, a nostro avviso, si trova il Ceretti più autentico, quello che permette di comprendere come una grande sensibilità e fragilità l’autore sia riuscito a trasformarle nel motore di una ricerca di confronto con il “male”. La seconda tematica del libro riguarda l’impegno lavorativo e una carriera che ha portato l’autore alla docenza in criminologia e a sviluppare una ricerca che non si è limitata ai soli confini italiani o europei ma ad un confronto con le zone più violente del Centro e Sud America, a visitare carceri particolarmente problematiche dove anche solo l’ingresso come studioso lo ha posto dinnanzi ad un rischio per la propria incolumità. In questi incontri con i rei Ceretti ha fatto sua una frase di “Paul Ricoeur secondo la quale ogni uomo può essere migliore della sua peggiore azione”. Una autobiografia composita questa che ci apre alla complessità della vita e alla complessità dell’incontro, anche quello con chi vorremmo tenere recluso dietro le sbarre.