di Elisabetta Rasy
Tra le varie forme che può assumere la “scrittura dell’io” – diari, scritture d’esperienza, autopresentazioni, corrispondenze epistolari, confessioni, memoriali, autobiografie – ecco che Elisabetta Rasy, partendo dalle quasi ottocento pagine dei Diari di Etty Hillesum, tenta un approccio suggestivo, come ha riferito in una intervista: un “diario al quadrato”. In un intreccio ricercato tra le pagine della scrittrice olandese – con le sue riflessioni, i confronti con autori e autrici di cui si è nutrita, gli amori della sua prorompente giovinezza – e i passaggi autobiografici della studiosa, ricchi di ricordi, di passioni, di incontri con personaggi reali o letterari. Quasi due romanzi di formazione che si intrecciano, in un confronto mai concluso. Si può parlare di commento autobiografico, di contrappunto personale? Certo, in un lungo processo di identificazione e di distanziamento in continui richiami e rimandi: processi mentali ed emotivi, questi, di cui si nutre arricchendosi ogni lettura come ogni scrittura di sé.
Etty Hillesum quando viene deportata a Auschwitz, partendo dal campo di smistamento olandese di Westerbork, ha quasi trent’ani. Ne aveva ventisette nel momento in cui dà vita alle pagine dei suoi Diari, pubblicati solo nel 1981. Scrive Rasy: “Quel diario lo lessi per la prima volta quando uscì in lingua italiana nel 1985, e se non credo che un libro possa cambiare la vita, credo però che possa cambiare qualcosa dentro di noi: così mi è accaduto con la storia di questa ragazza vissuta e morta parecchi anni prima della mia nascita, in circostanze tanto lontane da quelle della mia vita che ogni paragone sarebbe azzardato. Eppure lei e la sua storia si sono impresse dentro di me in modo indelebile, e ogni volta che riprendo il suo libro in mano sento quella stessa vicinanza, una sorprendente intimità tra di noi” (pp.9-10).
Dalla Hillesum impara ad amare lettura e scrittura, soprattutto come indagine di sé. Alla domanda che molti lettori le rivolgono sulle motivazioni della sua ricerca, risponde indirettamente: “L’unica risposta sincera alla domanda “perché si scrive?” che mi sentirei in grado di dare è:”Per la stessa ragione per cui gli uomini del Paleolitico tracciavano la figura delle loro mani sulle pareti delle grotte di Lescaux o di Altammira”. Cioè? No, non aggiungerei nessuna spiegazione” (p.143). Come ebbe ad osservare il nostro indimenticato Stefano Ferrari, le mani rappresentate sulle grotte di trenta o quarantamila anni fa sono la traccia più antica di qualcuno che ci comunica: “Io sono stato qua”.
Non può, Elisabetta Rasy, identificarsi totalmente con la ragazza ebrea che venne rinchiusa e poi deportata verso l’annientamento. Qui c’è un muro insuperabile. “Invece la trama della giovinezza srotolata dal suo acuminato e irrequieto intelletto d’amore era qualcosa che risuonava nel profondo, qualcosa di me che non avrei saputo dire con maggiore precisione, parole che mettevano in forma i pensieri non pensati, quelli che stanno acquattati nel fondo dell’anima senza riuscire a venir fuori […] era il suo continuo ascolto di sé, la continua attenzione all’anima nella sua irriducibile individualità, nelle sue esperienze concrete di emozioni e di pensieri, nel groviglio delle contraddizioni, nel suo sussultante rapporto col mondo. Era l’insegnamento di un ascolto di sé spregiudicato, irriverente, tanto più straordinario nell’epoca in cui avveniva” (pp.10-11). Etty nel suo diario cambia spesso e si contraddice in continuazione, però “su una questione non cambia mai opinione: vuole essere una scrittrice”. Non cambia mai opinione neanche sulla lettura. In questo si assomigliano.
La testimonianza autobiografica di Elisabetta Rasy si snoda in passaggi, che ogni cultore della scrittura di sé ben conosce, nella continua interrogazione su come eravamo e come siamo, magari cominciando dalla risivitazione delle fotografie dell’infanzia e della giovinezza. L’autrice mette a confronto le sue, partendo da quelle di sua madre con lei bambina, con le immagini di Etty, che la ritraggono in momenti, in età, in pose diverse, per cercare di carpirne il segreto, gli stati d’animo, i passaggi dell’esistenza. Ne annota frasi che per lei divengono tesori di profondo sentire, apprende da quella ragazza ebrea olandese il desiderio di scrivere in maniera assoluta, essenziale, come: “Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo”.
Un tratto originale di questo viaggio in compagnia della Hillesum, riguarda la scelta di percorrere il personale cammino alla scoperta, meglio, all’affermazione del proprio originale Sé, insieme a una lunga fila di altri personaggi femminili e maschili della letteratura, ognuno dei quali arricchisce e apre più profonde pieghe nel proprio animo: esistenze reali (Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Marguerite Duras, Simone Weil), ma anche personaggi letterali, come Tatiana dell’Eugenio Onegin di Puškin o Micòl del Giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Senza dimenticare figure maschili decisive, come Primo Levi, Joseph Conrad, e soprattutto, Rainer Maria Rilke. La conquista dell’adultità di ciascuno di noi si snoda attraverso incontri reali, esperienze vissute, ma assai spesso e per fortuna grazie a incontri in quel grande mondo immaginario che è la letteratura, quando diviene realtà di vita vissuta, sempre alla ricerca della propria forma. “Destino è una parola importante per Etty, ma più importante è anima. E ancora più significativa delle due, quella che compare in due momenti chiave del diario: la parola forma. Etty è in lotta per trovare la sua forma, esattamente quel lungo e faticosissimo apprendistato di sé che io ho riconosciuto nei miei vent’annni leggendo le pagine di questa ragazza olandese dalla vita così breve e così risplendente” (p.13). Rasy la vorrebbe come confidente, amica, compagna di università, per connivenze intime, per condividere i reciproci segreti.
Anche Etty, come lei, difende quanto più di peculiare, di più irripetibile la giovinezza possiede: “quel fragile, acrobatico forse impossibile equilibrio tra l’introversione e l’estroversione, tra il dentro e il fuori che non combaciano, ma vorrebbero disperatamente incontrarsi con tutto l’ardore che ne deriva” (p.115). Per questo desiderio di esprimere la sua giovinezza che non può essere soffocata da nulla e da nessuno, la giovane ebrea non scappa, non si mette in salvo, come avrebbero voluto Klaas Smelik e sua figlia Johanna. Non accetta di sottrarsi ad un destino imminente. Due le ragioni: per una convinta solidarietà col suo popolo al quale vuole appartenere integralmente fino alla fine, ma anche per “accettazione del destino, accettazione della vita, accettazione dei misteri di Dio” (p.130). Non martire, non teologa né filosofa, come Edith Stein. Ma una scrittrice che esprime una profonda certezza: “si deve contribuire ad aumentare la scorta d’amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile”. Lei vuole essere fedele a sé stessa, al proprio stile umano. La triade di valori che Etty ci insegna è: amicizia, amore, preghiera, quest’ultima sempre più importante: “mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più raccolta, concentrata e forte”. In ciò consiste la sua parola scandalosa, imprevedibile e indimenticabile: “Se Dio non mi aiuterà, allora sono io ad aiutarlo” (p. 140).
Nel testo Benedetta Rasy inserisce un paragone tra la testimonianza scritta di Primo Levi e quella di Etty Hillesum. Gli occhi di Primo sono costretti a vedere quello che non si dovrebbe mai vedere e lo mostra a noi in modi tanto efficaci che ci obbliga al ricordo, a non dimenticare. “Per Etty invece, nel corpo a corpo tra il terrore e la quotidianità, si tratta di elaborare non solo una strategia di resistenza, ma anche la strada di una comprensione che non faccia torto alla vita che sì – lo dice e lo ripete – è una dura battaglia, ma non per questo deve smettere di essere bella e attraente. È questa la sua scommessa, la sua acrobatica sfida, è questo il lascito del suo diario: la bellezza della vita nei giorni dell’annientamento” (pp.101-102).