di Paolo Jedlowski
Il testo di Paolo Jedlowski è un volumetto agile, che resiste a facili classificazioni. Come catalogarlo in una biblioteca? Linguistica? Approfondisce, è vero, le diverse valenze dell’avverbio “intanto”: (temporali, avversative, conclusive, perseverative), ma l’autore lo definisce anche una “congiunzione”, il che ci fa uscire dalla grammatica in senso stretto e lo avvicina allo studio dei processi mentali che “intanto” attiva. Saggistica sociologica? Potrebbe essere, anche perché chi scrive è un sociologo che di saggi ne ha pubblicati molti e nelle pagine del testo si attraversano temi classici: la famiglia, le generazioni, l’intercultura, l’invecchiamento. Qui però ogni riflessione passa attraverso esperienze assai personali, pensieri nascosti, domande imbarazzanti. Autobiografia, allora? In un certo senso, sì: buona parte del testo è ricca di riferimenti alla storia dell’Io. Però l’autore lo nega – “Benché mi sia basato su materiali autobiografici, questo non è un’autobiografia” – definendolo uno spazio di scrittura ibrido: tra l’autobiografia e la saggistica. Altro è il senso dell’operazione: “Questo spazio corrisponde a ciò che effettivamente mi importa: connettere quello che vivo e quello che rifletto”. Intanto è una testimonianza. Intanto è una interlocuzione tra sé e sé, e col mondo degli altri.
Si tratta allora di un testo di ricerca narrativa sul senso dei rapporti complessi tra ciò che è la coscienza personale e il mondo, in modo che questa rete di relazioni diventi esperienza, cioè sia ripresa, ripensata, riscritta: “perché l’esperienza personale sia feconda, chiede di essere rivisitata”, in modo che si possa rintracciare un filo. Ed è una ricerca sulle potenzialità e i limiti della scrittura, che ci offre possibilità inaudite di riflettere, collegare, aprire nuovi scenari, ma anche che pone in evidenza i limiti intrinseci del linguaggio stesso. La scrittura è infatti “uno spazio transizionale dove al caos delle suggestioni, interne e esterne, si prova a dare un ordine, si persegue, quasi come nel gioco, una sorta di padroneggiamento delle cose, delle relazioni, delle situazioni. La verità che la scrittura può raggiungere sta qui. E’ sempre deformata dai limiti del linguaggio stesso ma anche dalle pulsioni necessariamente oscure che la abitano”. Tuttavia è solo in tale spazio che intorno alla verità si può dire qualcosa.
Nella ricerca l’autore si affida ad Ermes, dio dei transiti, dei crocicchi, dei passaggi. Intanto che sei in un posto, accadono cose in altri luoghi. Poi scopri il passaggio tra i due momenti. “Mi chiedo cosa sto facendo in questo libro. Mi pare di aver lavorato a una tessitura. La tessitura è nelle cose. La realtà è una rete di nessi, un immenso sistema di sistemi dove ogni elemento di un sistema e ogni sistema dell’insieme è legato a tutti gli altri, si influenzano reciprocamente. Il linguaggio sceglie e ordina, dalla nostra prospettiva e con i nostri limiti, questi collegamenti. In parte si può dire che li scopra, e in parte si può dire che li costituisca, perché ce li presenta in un modo che è il linguaggio stesso a organizzare”.
E’ in questi collegamenti spesso improvvisi, imprevedibili a volte, che emergono le potenzialità di “intanto”, che si dimostra per l’autore un “Apriti Sesamo” per trovare tesori: sollecita domande sul tanto che è fuori della nostra esperienza diretta, è l’esercizio del guardarsi intorno, del chiedersi che cosa è il vissuto degli altri, quante cose stanno accadendo di cui non siamo – o non vogliamo – essere coscienti: “Intanto è l’apertura di un sub-plot. Intanto è il presente che non abiti da solo”. Se dici “intanto” tiri dentro qualche cosa d’altro nel tuo tempo, che appare, o riappare: “Intanto è un’epifania. Intanto può essere il nome della scoperta di essere stato cieco”.
Tra l’altro un vantaggio non indifferente che scrivere “intanto” apporta è evitare una scrittura autobiografica autoreferenziale, che è quasi una tentazione intrinseca delle scritture di sé: con “intanto” “l’Io al centro della storia, almeno per un momento, ne è spiazzato”. Scrive l’autore: “Ho lavorato con l’avverbio intanto. Ho costruito nessi. Tutti questi nessi sono in movimento. Non con lo stesso ritmo. Il tempo delle incombenze e delle relazioni di lavoro, per esempio, non è lo stesso di un movimento interno come il lutto. Sfasati, questi movimenti procedono però simultaneamente. Tu al lutto non ci pensi e intanto lui lavora. Lavora intanto. Un giorno ti accorgi che il lutto è elaborato (fin dove è possibile, si intende). Fino a quel momento la morte ti chiamava a sé. Poi per quanto sia cambiato e della morte ora puoi dire di saperne qualche cosa, il richiamo della vita ha il sopravvento”.
Con “intanto” la tua esperienza interna si trova collocata in un altro contesto, e dunque cambia il suo significato – si sa che una cornice intorno ad una macchia sul muro la trasforma in un artistico ready-made – portandoti a pensare a quanto grande è il mistero della vita, anche se ti trovi sempre ad un passo dal cogliere una sprazzo di verità, che può salvarti o ingoiarti (come la balena Moby Dick?). “E’ quando lavoro a una scrittura però che quello che esiste o che è esistito intanto mi sembra abbia le maggiori possibilità di affiorare: come una montagna sommersa di cui prima vedevi appena il cocuzzolo… O perché in fin dei conti non era una montagna, ma una balena, e scopri che la balena che cacciavi sei tu stesso, o tutto”.
L’intanto che spiazza di più sono i vissuti degli altri, sempre sorprendenti, fonti sempre inattese, che vanno corteggiate. Non stupisce che un capitolo sia dedicato a “il senso degli altri”: non relativo ai grandi eventi, ai passaggi storici, ma al senso che acquistano le cose del quotidiano, le piccole cose che si attendono, che si temono. Come gli altri sentono il senso della vita, degli incontri, intanto che tu vivi la tua? Parlando di migranti, inserisce un episodio spiazzante. In un quaderno di un giovane del Bengala, ritrovato su un barcone – lui è sparito in mare – trovano un dizionarietto, con alcune parole italiane. Uno si aspetterebbe parole utili, come ‘lavoro’, ‘farmacia’, ‘ospedale’ ‘documenti’. “Ma le parole annotate sono altre: ‘fiume’, ‘stelle’, ‘cielo’, ‘mare’, ‘poeta’, ‘attore’, ‘scrivere’, ‘conoscenza’. Mi trovo scaraventato in mezzo al mare, il cielo notturno sulla testa. In cuore il bello della vita”, pur nella sua tragedia.
Paolo Jedlowski si ritrova nonno, a vivere una fase della vita che figli e nipoti neanche immaginano. E intanto gli piace scrivere, per capire ancora, per il piacere di dare una bella forma ai suoi pensieri, alle sue esperienze, come un vasaio. Per capire che l’ombra che passa sulla Luna durante un’eclissi, “siamo noi”. E gli viene in mente, senza citarlo, Cotenna di bisonte, che dice al Piccolo grande uomo: “Oggi è un bel momento per morire”. Ma non muore e riprende il suo cammino. Così nelle ultime pagine trova ulteriori sensi alla parola “intanto”. Intanto vivo, nonostante tutto. Intanto scrivo, finché vivo. Intanto… ci sono ancora tante cose interessanti da indagare.