Mia madre, un caso di cronaca
di Maria Grazia Calandrone
Ogni viaggio, lo dicono gli psicologi del profondo, è una ricerca per ricongiungersi alla madre, al luogo materno, alla sua terra, al suo corpo, alla vita che ha originato una vita. In questa lunga cronaca un sogno di ricongiungimento, ripercorrendo le strade da lei percorse: visitando la sua casa, il suo paese, calcando a piedi i tragitti della sua sofferenza, calpestando le stesse pietre, accompagnata dalla figlia adolescente, che essendo lontana da quelle vicende, ha il distacco necessario a chiarire certe ipotesi troppo ansiogene per la narratrice.
“Dove non mi hai portata” è un viaggio nel dolore di Lucia, nella storia di una donna che ha subito la violenza di una società ancora patriarcale – dove le figlie servivano anche a forza di botte ad ampliare le proprietà famigliari – ma che ha avuto la forza di dare a lei, la figlia abbandonata, oltre alla vita, una nuova famiglia, un futuro: che prima di morire, l’ha voluta consegnare con una paternità e un nome al senso compassionevole di qualcuno: “Trovandomi in condizioni disperate, non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti, ed io, col mio amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto, o, indovinato o, sbagliato. Galante Lucia in Greco”. Può una fine così disperata aprirsi ad un orizzonte di speranza? Questa è la domanda cruciale che percorre tutto il testo.
Per Maria Grazia Calandrone le pagine scritte sono la cronaca, punteggiata di date e rimandi assai precisi, di una indagine minuziosa, quasi poliziesca, per certi aspetti spietata tra biografia e autobiografia, alla ricerca di indizi che poi vengono indagati puntigliosamente per la ricostruzione della storia “fluviale” di una donna, sua madre, che per età potrebbe ora essere sua figlia: “Scrivo solo su quaderni a spirale coi fogli vuoti, senza righe o quadretti. Comincio ad appuntare frasi impressionistiche sui luoghi, che col passare dei giorni e dei mesi, diventeranno appunti sulla vita di mia madre, interviste, esame di fascicoli d’archivio. Infine, una vera e propria investigazione su Lucia e tutto ciò che la riguarda”.
Per lei un tema ricorrente, quasi un tarlo, quello della madre, tant’è vero che l’anno prima, sempre in lizza per il Premio Strega, aveva consegnato alle stampe “Splendi come vita” (Ponte alle grazie, 2021), di cui Andrea Cortellessa scrisse: “Già con una, di origine, facciamo una certa fatica: la investiamo di radiazioni oniriche, proiettiamo fantasmi. Di famiglie, in sorte, Maria Grazia ne ha avute due. Lo specchio s’infrange, l’infanzia sanguina, l’ombra di quelle radiazioni si fissa per sempre”. Così “Dove non mi hai portata” diviene la ricostruzione di un’esistenza assetata di vita, di un corpo morto ripescato nel Tevere, all’interno delle coordinate storiche e paesaggistiche di un passato crudele, con annotazioni storico-sociologiche dell’Italia dalla fine della guerra al 1965. Ricerca di senso, non di certezze, perché il percorso delle storie di vita non fornisce univoche verità, ma solo valutazioni ipotetiche, tanto è vero che nel testo compaiono, a scrutare il senso di una esistenza, i titoli: “Ipotesi uno”, “Ipotesi due”. Sempre guidata, in ogni caso, da volontà di capire fino in fondo attraverso l’immedesimazione: “Entro nella mente, allora raziocinante di mia madre, entro nella sua anima pensante”. Un’indagine per molti aspetti impietosa, da polizia scientifica, quella di Maria Grazia Calandrone, crudele, per indagare la verità di scelte sofferte, per capire la motivazione di fondo di “dove non mi hai portata”, il valore dell’esistenza che le è stata donata per ben due volte.
Il tempo del racconto scelto dall’autrice non è evocativo, all’imperfetto o al passato remoto, tempi tradizionali della narrazione memoriale, ma il presente: tutto in primo piano, manca il rapporto tra figure che emergono e figure sullo sfondo: il 1965 e il 2021 sono presente. Ciò rende spesso duro, quasi aggressivo il racconto. Non c’è il gusto della rievocazione, della rimembranza, ma l’accanimento dell’inchiesta – fino a indagare le carte dell’obitorio o il tempo che ci mette un cadavere annegato ad emergere dalle acque del Tevere – accompagnato da lampi di riflessioni sulla vita, la storia, il caso e il destino. Passato e presente sono posti sullo stesso piano. Rare le anticipazioni del futuro, partendo dal presente dell’indagine. Tutto è attuale, colto direttamente, reso fotografico, immediato, puntuale. Manca, per quasi tutto il testo, la consolazione della memoria, come ne scriveva Asor Rosa: “Il distacco allontana la violenza, la rende meno atroce… Lo sguardo dolce affettuoso della memoria, l’intenerimento del ricordo, tingono di colori sfumati la crudezza dell’esperienza vissuta”. Qui non accade, anche se non mancano inserimenti poetici.
L’investigazione di Maria Grazia Calandrone reca dolore, come può esserlo la ricerca sul suicidio di una giovane donna che le ha dato la vita, ma è determinata, inflessibile: “pochi mantengono l’ostinato amore necessario a districare il bagliore della vita di Lucia dall’ingroviglio di vergogna, omertà e colpa che l’ha sepolta. Devo affondare le mani nella cecità del tempo, senza sapere cosa troverò: laggiù, nella terra dove il silenzio lascia cadere i non amati. Poi guardare che corpo viene alla luce”. Un corpo simbolico, immaginario, perché al paese, in quel tempo, non hanno pietà per una suicida oltre che adultera: “L’indomani, la mettono in silenzio dentro la sua terra, a occhi bassi e in furia per la vergogna. Senza messa e senza funerale. Perché Lucia, che ha voluto a ogni costo scegliere la vita, ha infine rinunciato al dono della vita, come ultima libertà possibile”. Una libertà che spaventa.
La narratrice alla fine scopre di essere figlia della speranza: “La storia dice che Lucia e Giuseppe sono morti sperando. Il mio bene, almeno, se non più il proprio. E loro due, mettiamoli tra quelli che hanno vinto l’invincibile solitudine del morire, morendo insieme”. Le hanno lasciato un’eredità di bene pur nella desolazione: “Il viale che sto percorrendo diventa un fiume sotto le ruote del mio fuoristrada. Ma non ho paura, ormai sono capace di guidare dentro questo fiume. Anzi, guardo le cose dall’alto, vedo che tutto è bello, come appena rinato. Sono venuto a prenderti, Lucia. Qui dovevo arrivare. Anzi, tornare. A pagina 123 del mio dattiloscritto posso finalmente accarezzare il volto di mia madre, e il suo corpo di luce e di niente. E abbandonare il pregiudizio che solo la cultura ci permetta di capire le cose e conoscere il mondo dentro e fuori di noi. Lucia aveva la seconda elementare, ma era libera. Perché aveva cuore. Quello che ancora splende, irreparabile”.