di Filippo Maria Battaglia
La vita di Nina, tra un’alfa: “Nacqui leggerissima. Ho giocato molto da sola, con bastoncini e rametti, o fingendo di covare le uova nella cesta dell’unica gallina che avevamo nel pollaio”, e un’omega: “E’ tardi. Qualcosa però posso ancora fare. Scrivo la mia storia. Scrivo perché si faccia qualcosa. Non so se è poco o tanto. E’ il mio atto d’amore”.
Un testo, quello di Filippo Maria Battaglia, destinato a sollevare ancora una volta il problema mai risolto del rapporto tra verità e autobiografia. Una storia di vita inesistente, che tuttavia ci racconta di una donna, che ci colpisce per la sua ”urgenza” di raccontare se stessa, per la sua straordinaria “autenticità”, per il suo rappresentare donne italiane che hanno vissuto lungo un secolo, a cui questo uomo, fattosi raccoglitore di storie, intende rendere omaggio.
Nel momento della lettura di questa “autobiografia fittizia”, tornano alla mente le parole di Philippe Forest, al Primo Simposio internazionale di Anghiari, organizzato dal Centro Nazionale di Ricerche e Studi Autobiografici nel dicembre 2019: “la letteratura non esprime mai altro se non il perenne movimento mentale tramite il quale la realtà si fa sogno e il sogno realtà. O se si vuole in virtù del quale i fatti si trasformano in finzioni e le finzioni si trasformano in fatti… Di modo che tra i fatti e la finzione, tra l’autobiografia e il romanzo non esiste nessuna frontiera che possa essere tracciata una volta per tutte”.
L’esperimento letterario/giornalistico di Battaglia porta questa tesi alle estreme originalissime conseguenze, nella costruzione del personaggio di Nina, che annota nella pagine di un diario i passaggi cruciali della sua esistenza. Ma, ecco la sorpresa: “La sua voce proviene dai diari, dalle lettere e dalle memorie di centodieci donne che hanno attraversato il Novecento con rabbia e ostinazione, a volte con disincanto e rassegnazione. Sono poco più di quattrocento frammenti scelti tra molte migliaia e pieni di nomi, di luoghi, di cose… lo spazio bianco tra un frammento e l’altro segnala il cambio di voce”. Voci narranti raccolte in quel favoloso luogo di memorie che è l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. E tuttavia la lettrice o il lettore non percepiscono alcuna frattura, in quanto nella loro mente la voce narrante rimane quella di Nina, che racconta di sé e riflette sui misteri del senso di quanto vissuto in prima persona.
L’effetto però è straniante: ti rappresenti un personaggio molto concreto e carnale, che narra i passaggi cruciali di una vita, nello stesso momento in cui lo “scrivano” che li ha raccolti, già in apertura, ti rammenta che quello di Nina “è un autoritratto collettivo fatto di istantanee in cui l’aderenza alla realtà non coincide con il realismo ma con il suono che la voce fa sulla pagina scritta”.
Il “diario” segue un rigoroso andamento cronologico, con uno sviluppo tipico dei romanzi di formazione, scandito in sette parti: dalla nascita in ambiente rurale alla crescita, dai giochi allo schifo di mani e lingue maschili che ti molestano, dall’adolescenza alla scoperta dell’amore, dal matrimonio e la maternità all’incontro con i lutti familiari, le malattie, fino alla sorpresa di trovarsi vecchia e di aspettare la morte. Una scrittura che ci offre passaggi a volte assai teneri, dolenti, ma tutto sommato sereni, anche se legati al senso del decadimento e della fine. Frammenti degni di autori ben altrimenti famosi: “Il corpo è un cimitero di cicatrici, ma non ho rimpianti: ognuna di esse mi ha insegnato una nuova prospettiva da cui considerare il mondo, le cose e le persone intorno a me”.
L’importante, ci suggerisce Nina, è non dimenticare i propri sogni: “Sono loro che mi hanno accompagnato sul sentiero dove il mistero della vita è strettamente legato a quello della morte. Perché vita e morte, speranza e disperazione, sono così strettamente legate l’una all’altra, da essere separate solennemente da un breve lunghissimo istante. Ed è quell’istante che, se sappiamo assaporare la dolcezza, ci può donare gocce di felicità”.