RECENSORE: Carmine Lazzarini, .

Titolo: Vita mia. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia

Autore: Dacia Maraini

Editore: Rizzoli (Milano)

Anno edizione: 2023

Pagine: 224

ISBN: 9788831812894

Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia
di Dacia Maraini

In un esergo in forma poetica, Dacia Maraini si rivolge alla sua vita ormai lunghissima: “vita mia/ che balli e canti/ sulle rovine del passato… / prima di andare/ lasciati capire/ lasciati concepire/ lasciati abbracciare/ lasciati raccontare.” Da questa invocazione nasce un testo prezioso, pieno di esperienze dolenti e di tenera saggezza, con ricche annotazioni storiche. Una scrittura autobiografica che rievoca i momenti terribili della sua infanzia, dai sette ai nove anni, con pacatezza, distacco, serenità, proprie di chi si è lasciata alle spalle le sofferenze, le malattie, le atrocità del campo di prigionia giapponese, rendendosi conto di quanto quelle vicende l’abbiano sollecitata a conquistare una più articolata concezione della cultura e dei rapporti umani. “Mia madre e mio padre certo avevano una visione da adulti consapevoli quando hanno scelto di non firmare l’adesione alla Repubblica di Salò. Io posso raccontare solo come ho vissuto quella difficile esperienza, sempre in bilico fra la vita e la morte, e come abbia influito sul mio modo di pensare e di agire” (p.10).
Fosco Maraini, il padre, si era trasferito in Giappone nel 1939 come lettore di lingua italiana a Kyoto. Era un uomo colto, versatile, intuitivo e conoscendo bene il culto di nipponici per il giri, la difesa del proprio buon nome, compì un azzardo che si rivelò salvifico. Di fronte al capo delle guardie che insultava i prigionieri, urlò: “Noi italiani non siamo né vigliacchi né traditori! Siete voi, che fate morire di fame delle bambine”, ed afferrata un’ascia sul ceppo, con un colpo netto si tranciò un dito, lanciandolo sulla divisa immacolata della guardia. Venne punito severamente, ma quel gesto colpì l’antico cervello militaresco delle guardie. Dopo qualche giorno giunse al campo una capretta, per fornire latte alle figlie.
La testimonianza di Dacia su quegli anni decisivi per la sua formazione conferma una visione pedagogica nella quale la narrazione ha un valore decisivo. In quei mesi di fame, di malattie e indigenze penose, arrivavano sempre racconti ad alleviare le paure delle piccole, aiutandole ad accantonare la ferocia della loro condizione. I racconti di Miki Uriu, “la sorridente, generosa, seconda madre”: fiabe, stornelli, ninnananne, filastrocche, che trasmettevano il culto giapponese degli odori, della natura, dei defunti. “I morti per noi bambine non erano fantasmi che apparivano nelle notti insonni per incutere paura, ma erano presenze quotidiane che frequentavano la casa, davano buoni consigli ai vivi e proteggevano i più deboli” (p.26). E insieme a quelle suggestioni vive della bambinaia, la mente di Dacia conserva ancora l’impressione delle tante parole giapponesi “per distinguere gli odori legati ai fiori, alle piante, alle foglie del tè. Sapevamo a memoria alcuni haiku basati su un rapporto sensuale e poetico con gli alberi, le stelle, i fiori, la luna… in cui una foglia che cade o uno spicchio di luna o una rana che zompa in uno stagno raccontano l’arcano della vita” (p.27). Scrive: “Mi consideravo una piccola giapponese” (p.217).
Gli infiniti racconti della madre Topazia in forma di fiaba, che variavano dai Fratelli Grimm alle leggende greche, dalle Metamorfosi alla storia di Re Lear e Cordelia, o anche in forma di poesia. “Ma che cosa ha di così potente la poesia da dare forza perfino a un prigioniero di un campo di sterminio? Qualcosa che riguarda l’armonia? […] “L’armonia porta serenità e fiducia” diceva saggiamente mia madre “l’armonia induce alla razionalità, mentre la disarmonia spinge alla confusione, alla perdita di sé. L’armonia dovrebbe fare parte dei diritti umani, perché sollecita un buon rapporto con le cose, con la natura, con la musica, con il futuro, con sé stessi.” (p.191).
I racconti del padre Fosco, a parte gli haiku da lui composti, erano più legati alla scienza e alla filosofia, come le riflessioni sul tempo, che Dacia fa proprie in un’interrotta riflessione sull’apparire e lo sparire delle realtà del mondo, sulla presenza di Dio o la sua assenza, sul significato del morire. “Dove va l’universo e perché? Cos’è il tempo? Ce lo stiamo creando noi con quella bella e commovente invenzione dell’orologio o esiste veramente? Cos’è l’essere umano e che rapporti ha con il passato e il futuro? […] domande a cui non trovo risposte. Forse la sola libertà che abbiamo è quella del sogno: sogniamo che i nostri amati morti siano nelle vicinanze, che si parlino fra di loro, che, sebbene trasformati in radici, foglie e fiori, abbiano la capacità di entrare nei nostri respiri e nei sogni più belli” (p.142-143).
La madre non approvava questi ragionamenti sulla nascita e la morte dell’Universo, ma Dacia ormai matura ne avverte ancora l’importanza per la sua formazione di donna europea aperta ai popoli, agli animali, al culto della memoria, assetata di libri, di cultura di ogni civiltà: “Lasciale nelle loro illusioni, diceva lei, senza rendersi conto che quelle idee paterne erano come semi gettati nella terra fresca e avrebbero germogliato anni dopo in forma di severo e sereno pensiero illuministico.” (p.146) Una visione che le permette di discernere tra le ideologie, a non confondere le aberrazioni di ristretti gruppi con le grandi culture del mondo. “Non possiamo non dirci cristiani sostiene Croce. E io aggiungerei, non possiamo non dirci europei, per radici e abitudini mentali, per affinità e vicinanza” (p.220).

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